Storia della fotografia dal 1515 al 1871

Già Aristotele (IV sec. A.C.) aveva osservato come i raggi del sole che passavano per una piccola apertura producessero un’immagine circolare. Diciassette secoli dopo nel 1267 il monaco inglese Ruggero Bacone descriveva la camera oscura e l’uso dello specchio da anteporre al “forame” per raddrizzare le immagini.
Nel Quattrocento, gli artisti mostrano uno spiccato interesse per l’ottica, ma solo come tecnica per gestire la prospettiva dei loro quadri. Nel 1515, alla camera oscura si riferisce Leonardo da Vinci.
Il salto di qualità arriva quando il monaco Johann Zahn (1685), progetta una camera oscura con specchio a 45° dietro la lente per rinviare l’immagine verso l’alto e consentire un più facile ricalco sul vetro smerigliato.
Con il Settecento, lo scenario cambia. 

Il boom della camera oscura è ormai consolidato, ma anche la chimica fa i suoi progressi. Nel 1725 Johann Heinrich Schultze scopre che il nitrato d’argento annerisce con l’esposizione alla luce.
Il primo tentativo di fissare un’immagine su un supporto alla luce della scoperta di Schultze, fu quello di Thomas Wedgwood, figlio del famoso ceramista inglese. Probabilmente, il suo scopo era quello di industrializzare l’uso della camera oscura di cui si servivano gli artigiani della ditta paterna per riprodurre su piatti e zuppiere le ville ed i castelli della clientela. Dopo vari esperimenti condotti tra il 1796 ed il 1802, riesce a registrare i profili degli oggetti che appoggiava su piccoli pezzi di pelle bianca sensibilizzata e che esponeva alla luce del sole. Ma le immagini non erano permanenti e Wedgwood poteva osservarle solo per pochi minuti a lume di candela.

  

Joseph Nicéphore Niépce

Joseph Nicéphore Niépce nasce nel 1765 a Chalon-sur-Saône da famiglia ricca e borghese. Dopo aver pensato di votarsi al sacerdozio, aver fatto parte delle armate rivoluzionarie si avvia ad una brillante carriera di inventore che lo porta (assieme al fratello Claude) a progettare un prototipo del motore a combustione interna, a studiare apparecchiature di propulsione dei natanti e di pompaggio delle acque. Inizia ad interessarsi attivamente nel 1816, ai fenomeni della luce e della camera oscura durante un soggiorno a Cagliari.

L’interesse per la produzione di immagini senza l’intervento dell’uomo gli venne dalla litografia: sperimentando diverse tecniche Niépce riesce ad ottenere, nel 1826, la sua prima immagine disegnata dalla luce (dopo aver steso uno strato di bitume di Giudea ridotto in polvere e disciolto in essenza di lavanda; la soluzione viene pennellata su una lamina di rame ricoperta d’argento e quindi fatta asciugare; lo strato di vernice fotosensibile viene esposto per qualche ora sul fondo di una camera oscura; successivamente la lamina viene immersa in un bagno di lavanda per dissolvere i frammenti che non hanno ricevuto la luce e così si ottiene l’immagine in negativo. Per il positivo occorre un contenitore con cristalli di iodio che formano depositi di ioduro d’argento; eliminando la vernice con l’alcool appare l’immagine fotografica vera e propria) che definisce eliografia, la madre della moderna fotografia. 
 

Louis Jacques-Mandé Daguerre

Dominato fin dall’infanzia dalla vocazìone per la pittura non aveva saputo resistere alla vita di impiegato dell’ufficio imposte indirette dove le aspirazioni paterne l’avevano confinato. Abbandonato il paese natale, Cormeilles, per tentare la grande avventura di Parigi divenne allievo di un famoso scenografo, ne seguì le orme acquistando ben presto perizia e fama. Nessuno meglio di lui sapeva mascherare con accorgimenti pìttorici le numerose e grossolane macchine di scena; nessuno, agli inizi del secolo scorso, conosceva come lui l’arte di sedurre gli spettatori con gli artifici della prospettíva. Si compiaceva soprattutto di comporre paesaggi vaporosi, effetti di tramonti e di notturni lunari, le scene pìù solenni della natura. Una trovata di Daguerre è rimasta memorabile. L’11 luglio 1822 aprì al pubblico uno spettacolo assolutamente nuovo per quell’epoca e pieno di sorprese e di illusioni: il Diorama che fece furore per diciassette anni, fino a quando, il 3 maggio 1839, un incendio lo distrusse in meno di due ore. Ricostruito poco tempo dopo fu per un nuovo sinistro ridotto in cenere una seconda volta. Il Diorama era una sala circolare capace di contenere 350 persone. Lo spettacolo consisteva nella presentazione, su una piattaforma girevole, di vedute dìpinte su tele di cotone trasparenti. Queste erano disposte prospetticamente su una profondità di 15-20 metri.
Ogni quadro poteva raggiungere la lunghezza di 22 metri e la larghezza di 14 ed era ìlluminato in modo da ottenere un gioco di ombre e di chíaroscuri capaci di riprodurre con fedeltà incredibile tutti gli effetti della luce in natura, cioè rappresentare, per esempio, un paesaggio o un interno immerso nel sole splendente o nella nebbia o nella penombra del crepuscolo. Il pubblico poteva assistere perfino alla scena suggestiva della chiesa di Saint Etienne du Mont che man mano si illuminava per la celebrazione della Messa di mezzanotte con l’entrata dei fedeli. Altre rappresentazioni rimaste famose furono i panorami del Monte Bianco e dell’isola di Sant’Elena e della basìlica di San Pietro a Roma.
Condotto dai suoi studi di pittura, di prospettiva e di ottica, di fronte al problema del fissaggio delle immagini ottenute per azione del sole, Daguerre aveva appreso, nel gennaio del 1826, che questo problema era stato rìsolto già da qualche anno da Niepce. Era subito entrato ìn corrispondenza con lui ottenendone diversi saggi di eliografia su piastre di stagno o di rame. Niepce, a sua volta, aveva espresso il desiderio di conoscere i risultati di analoghi esperimenti annunciati da Daguerre. Ma questi non volle o non potè inviargli in cambio nessun campione dei propri lavori, benchè continuasse ad affermare di aver scoperto un procedimento diverso da quello di Niepce, anzi superiore. Al primo incontro tra Niepce e Daguerre del 1827 ne seguirono altri, sempre più frequenti, finchè, avendo Daguerre affermato di avere apportato alla camera oscura un perfezionamento considerevole tale da costituire un procedimento più semplice e sicuro per il fissaggio delle immagini, Niepce gli propose di unire i loro sforzi per imprimere alle loro scoperte un progresso più rapido e assicurarsene ì benefici.
Il 5 dicembre 1829, a Chalon-sur-Saòne. Niepce, che ha 64 anni, e Daguerre che ne ha 30, firmano un contratto di associazione. Messo al corrente sui dettagli del procedimento eliografico di Niepce, Daguerre lo perfezionò grandemente, al punto da meravigliare lo stesso Niepce. Il giovane inventore cominciò anzitutto a sostituire il bitume con una sostanza più untuosa, la resina, che ottenne distillando essenza di lavanda sciolta in alcool. Poi, invece di lavare la lastra, la espose a vapori d’olio di petrolio. Il vapore si condensava in goccioline sulle parti rimaste in ombra, le scioglieva e le rendeva trasparenti: mentre non intaccava le parti esposte alla luce, che conservavano la loro morbidezza naturale e riproducevano anche le parti chiare dell’immagìne. ” E’ così – disse Daguerre – che sono riuscito a ottenere, mediante l’azione più o meno accentuata del vapore sulla sostanza, la gradazione delle tinte “.
I perfezionamenti da lui escogitati sono tanto considerevoli che ormai egli giudica essere venuto il momento di farsi conoscere come l’unico inventore della nuova arte. Nel contratto da lui firmato con Níepce nel 1829 era scritto: “Articolo 1: vi sarà, tra i signori Niepce e Daguerre, società sotto ragione di commercio “Niepce-Daguerre”, per cooperare al perfezionamento della scoperta, inventata dal signor Niepce e perfezionata dal signor Daguerre.   Articolo 2: in caso di morte di uno dei due assocìati, la detta scoperta non potrà mai essere resa pubblica che sotto i nomi designati nell’articolo precedente “.
Quattro anni dopo la morte di Niepce (avvenuta nel 1833) Daguerre furbescamente impone al figlio del socio un nuovo contratto e gli fa firmare questa dichiarazione: “Io sottoscritto dichiaro con il presente scritto, che il signor Louis Jacques-Mandé Daguerre mi ha fatto conoscere un procedimento di cui è inventore… Questo nuovo mezzo ha il vantaggìo di riprodurre gli oggetti dieci o venti volte più rapidamente di quello inventato dal signor Joseph-Nicéphore Niepce, mio padre… In seguito alla comunicazione che mi ha fatto, il signor Daguerre acconsente ad abbandonare alla società il nuovo procedimento di cuì è inventore e che egli ha perfezionato, a condizione che questo nuovo procedimento porti solo il nome dì Daguerre “. E’ questa appunto l’origine del nome francese daguerrotype, da cui l’italiano dagherròtipo.

Daguerre riesce a interessare alle sue ricerche un insigne fisico e astronomo, Domenico Francesco Arago, insegnante al Politecnico di Parigi, che appena ventitreenne era stato chiamato a far parte dell’Accademia delle Scienze. Ed è Arago, persona influente e politicizzata, che, il 19 gennaio 1839, comunica all’Accademia delle Scienze l’invenzione di Daguerre limitandosi a citare la collaborazione da parte di Niepce. L’annuncio suscita grande entusiasmo e la fortuna di Daguerre cresce in modo rapidissimo, mentre la figura di Niepce resta in ombra. Daguerre viene nominato ufficiale della Legion d’Onore, l’imperatore d’Austria gli regala una grande medaglia d’oro ornata di brillanti, varie Accademie d’Europa lo eleggono loro membro onorario. I procedimentí del dagherrotipo acquistati dallo Stato francese e resi pubblicí, rendono, dietro richiesta di Arago, una pensione annua di seimila franchi a Daguerre e di quattromila agli eredi di Niepce. Nella sua mostra personale espone bellissime vedute di Parigi – per la prima volta compare la figura umana nel paesaggio, sia campestre sia cittadino – che entusiasmano il pubblico. 
Niepce non possedeva un grande gusto artistico, anche se si sforzava nelle sue nature morte di farlo trasparire. Daguerre invece ha innato il senso della composizione senza infingimenti pittorici. E’ un fotografo nato, illuminato da una serie di circostanze favorevoli. Insieme al cognato Giroux, un cartolaio parigino, Daguerre farà brevettare speciali apparecchi per il dagherrotipo; un altro socio, Chevalier gli fornirà le lenti per gli obbiettivì. Daguerre farà molta fortuna e vivrà di rendita per il resto della vita in una lussuosa villa di campagna, venerato come un maestro e occupato fino all’ultimo nel perfezionare i suoi procedimenti. Ma l’annuncio dato all’Accademia delle Scienze da Arago nel lontano 1839 aveva anche suscitato proteste. Erano stati in molti a rivendicare la priorità dell’invenzione. Il parroco tedesco Hofmeister disse di esservi arrivato cinque anni prima: ìl francese Gauné addirittura dodici anni prima; gli inglesi Towson e Reade, rispettivamente nel 1830 e 1836.
Chi veramente aveva fatto molto per la fotografia, rimase in disparte. Si trattava di Hippolite Bayard e del già citato Niepce. Bayard era un modesto impiegato al Ministero delle Finanze di Parigi ed era tanto riservato e umile che i colleghi non sapevano nulla dei suoi esperimenti serali a lume di lucerna. Quando si sparse la notizia dell’invenzione di Daguerre nel 1839, egli si decise a rendere noti i risultati degli esperimenti condotti diversi anni prima: aveva ottenuto ìmmagini fotografiche positive direttamente dalla camera oscura, su carte al cloruro d’argento.
Il 24 giugno dell’anno stesso dell’annuncio di Arago, espose al pubblico, nelle vetrine di un magazzino di Parigi. trenta fotografìe dal vero. Ma non ottenne larga fama.
Pare che Arago, grande amico e padrino di Daguerre, l’abbia ricevuto per convincerlo dello scarso valore delle immagini su carta da lui ottenute. Si dice anche che Arago sia arrivato a dare al povero Bayard una mancia di 600 franchi perchè lasciasse perdere, invitandolo a dedicarsi anche lui al dagherrotipo.
Insieme ad Hippolite Bayard non ottennero nè successo nè gloria anche Nadar, Disderi e altri “Tiziani della fotografia”, come allora venivano definiti i fotografi, con una pomposità che valse comunque a esaltare molti pittori di mediocre levatura i quali decisero di abbandonare i pennelli per i sali d’argento, facendo miglior fortuna e ottenendo un certo nome come ritrattisti da salotto. Nella sola Parigi, nel 1847, furono vendute 2000 macchine e mezzo milione di lastre. In Francia e in Inghilterra i dagherrotipisti eseguivano ritratti le cui dimensioni andavano dai 4 cm. per 5, ai 17 cm. per 22. Tali ritratti venivano poi montati su cornici di cartapesta o su astucci di metallo dorato e venduti ad un prezzo tra le due e le cinque sterline per lastra. Mentre i dagherrotipisti di professione accumulavano fortune, turisti, scrittori e artisti portavano nei loro viaggi, la macchina magica: ne ricavavano immagíni ricordo e illustrazioni per le loro opere. Dopo che il procedimento di Daguerre venne reso pubblico nel 1839, il dagherrotipo diventò una vera e propria mania. Molti pittori abbandonarono tavolozza e pennelli per dedicarsi con assai maggior fortuna al nuovo mestiere di dagherrotipista. Nelle immagini di quel periodo traspare evidente lo stretto legame che univa le prime composizioni in citografia e in dagherrotipia con le composizioni pittoriche. L’equivoco di ottenere, mediante sostanze sensibili alla luce, immagini ad imitazione dei quadri, durò a lungo. Quello che si cercò di ritrarre, nella maggior parte dei casi, furono gli effetti pittorici dei paesaggi. Gli appassionati del dagherrotipo furono dominati, insomma, dall’ambizione prevalente di riuscire a ottenere dei “bei quadri”, si preoccupavano meno di andare a ritrarre gli aspetti della vita quotidiana, anche se i ritratti di quel tempo rimangono documenti vivi ed autentici dell’epoca. Eppure, fin dagli inizi, Niepce, Daguerre e i loro seguaci avevano dimostrato che la fotografia è un’arte a sè, che ha poco o nulla in comune con la pittura. Essa, ma lo si capì solo molto piu’ tardi, è un mezzo per “raccontare” con immediatezza, o per creare immagini che il pennello non è capace di inventare. Alcuni dei migliori ritratti eseguiti con la nuova tecnica furono opera di un miniaturista di Amburgo, Carl F. Stelzner. Del 1843 è il dagherrotìpo che ritrae un gruppo del Circolo Artistico di’Amburgo durante una gita in campagna. Insieme con un altro dagherrotipista, Hermann Blow, Stelzner ritrasse, nel 1842, il terribile incendio che distrusse un intero quartiere di Amburgo. Fu quello il primo “reportage” fotografico della storia. Daguerre in realtà non inventò la fotografia. L’avevano inventata molti altri prima di lui. Non si sforzò neppure tanto a studiare, a sperimentare. Ebbe una grande fortuna, perchè riassunse, in una sintesi perfettamente aggiornata, le teorie altrui.
Mentre le prime immagini realizzate da Niepce in unico esemplare erano piuttosto confuse e bluastre, i dagherrotipi avevano il pregio di apparire in qualche modo ‘colorati’. Ripresi in un unico esemplare su una lastrina argentata riflettevano la luce con cui venivano illuminati. I colori dei dagherrotipi però erano immaginari in quanto non appartenenti alla lastra osservata (che si limitava ad avere parti scure brunite e parti chiare argentate) ma determinati solo dalla qualità della luce con cui si effettuava l’osservazione, cosicchè ci si poteva convincere di scorgervi colori che in realtà esistevano solo nell’immaginazione. Per di più alcune di queste immagini erano riprese su un supporto dorato per cui il colore della pelle risultava molto somigliante. Per questo motivo il tradizionale nudo artistico fu fra i soggetti preferiti.

I dagherrotipi di nudo però erano costosi e rari (certo anche a causa del particolare soggetto allora considerato osèe). Spesso, per consentire una lunga posa senza ‘mosso’, la modella veniva prima ritratta a mano, nel modo più somigliante possibile, poi il dagherrotipo si otteneva (pensate) fotografando… il quadro! Si tentò allora di rendere più certi e stabili i colori anteponendo alla lastra metallica un vetro sottilissimo sul quale i colori venivano riportati a mano con le tradizionali tinte ad olio, ma ciononostante il colore nelle fotografie continuava ad essere un’opinione.
Nonostante i suoi notevoli limiti e la indubbia macchinosità del procedimento, che oggi ci inducono al sorriso, tuttavia il metodo di Daguerre ebbe un grande successo e l’uso del dagherrotipo si diffuse rapidamente, in particolare per ottenere ritratti (allora molto in voga) molto somiglianti e reali. I nuovi ritrattisti dagherrotipisti aprirono i loro studi in tutte le maggiori città del mondo, alcuni esercitavano la professione in modo ambulante, come risulta dalla pubblicità dell’epoca. Anche in Italia la dagherrotipia si diffuse rapidamente; il primo manuale tecnico, tradotto dal francese, è del 1840. Il successo delle immagini di Daguerre e dei suoi numerosi seguaci comunque non durò a lungo. E  la notevole somma che lo Stato francese aveva speso, complice l’affarista Arago, per sovvenzionare Daguerre affinchè il suo procedimento fosse libero da brevetti, si rivelò ben presto una spesa inutile.
Pur rappresentando soluzioni di indubbio interesse scientifico e di grande richiamo anche dal punto di vista pratico, il processo di Niepce, la dagherrotipìa e i procedimenti consimili differivano abbastanza profondamente dai moderni procedimenti fotografici. Essi infatti davano direttamente un’ immagine positiva (cioè con i chiari e gli scuri corrispondenti a quelli del soggetto), unica, invertita e da cui non si potevano ottenere copie.
                                                           

 

William Henry Talbot

Pochi anni dopo fu l’inglese William Henry Talbot a porre le basi della fotografia chimica così come la intendiamo oggi, cioè quel procedimento che tramite un negativo permette di ottenere una o più stampe positive su carta.
Nel 1833 Talbot era in vacanza sul Lago di Como e si divertiva a fare disegni con l’aiuto di una camera oscura. Riflettevo sull’immutabile bellezza dei quadri che la Natura offre – racconterà poi – e che le lenti della camera oscura riproducono sulla carta….quadri favolosi che però si dissolvono in un baleno. Fu facendo questi pensieri che mi venne in mente come sarebbe stato bello fare in modo che le immagini naturali si imprimessero da sole sulla carta rimanendovi fissate per sempre“.
Talbot si mise al lavoro spinto da questa affascinante idea e nel 1839 rese note le prime conclusioni dei suoi studi, presentando il primo vero processo fotografico che fu denominato in inglese Talbotype (poi tradotto talbotipìa in italiano).
Tale procedimento ed il suo successivo perfezionamento chiamato Calotype (calotipìa), presentato nel 1841, erano fondamentalmente basati su un processo negativo-positivo con il quale si potevano ottenere, grande novità questa, anche molte copie dalla medesima posa. Sia il negativo che la stampa positiva erano costituiti da una carta impregnata di cloruro d’argento (ioduro d’argento nella Calotipìa). Fondamentale era stata la scoperta che il sale d’argento, non alterato dall’azione della luce, può essere sciolto in diverse soluzioni (sale da cucina all’origine e più tardi acido gallico). Con la carta ai sali d’argento di Talbot l’immagine della macchina fotografica si impressionava in negativo. Bastava però rifotografare il negativo di carta per invertire l’iimmagine, traducendola cosi in positivo. Esperimenti di annerimento della carta in vari modi sensibilizzata erano già stati tentati nel XVII secolo, riuscendo talvolta ad ottenere “silhouette” bianche su nero senza intervento manuale. La calotipia Talbot rese finalmente popolare, cioè economico, il ritratto mettendo seriamente in crisi i pittori moltissimi dei quali abbandonarono i pennelli e impararono la nuova tecnica, come in Italia Tommaso Cuccioni, ad esempio, gìà celebre incisore. I nuovi fotografi ex pittori ci tenevano però ad assicurare che fra immagine manuale e immagine ottica non esisteva nessuna sostanziale differenza e nei “marchi” di allora, bellissimi, i simboli delle due arti sono combinati. Infine la calotipia consentì per la prima volta l’ingrandimento automatico del negativo. La carta veniva resa trasparente come fosse una “pellicola” ungendola con vasellina.
Il contributo di Talbot per il progresso della fotografia fu notevole ed importante. Ma egli scrisse modestamente e con una notevole dose di intuito: “Non credo di avere perfezionato un’arte, i cui sviluppi non è possibile al momento prevedere con esattezza. Penso invece di aver dato ad essa solo un inizio. Credo di avere costruito fondamenta sicure e sarà compito di mani ben più abili delle mie erigere i piani superiori”. Le immagini su carta, ottenute con il procedimento negativo-positivo da questo “scienziato dilettante” (com’egli stesso amava definirsi), non possedevano però, per quanto riguarda i colori, la suggestione di quelle immaginifiche figure ‘metalliche’ di Daguerre.
Erano semplicemente della tinta eventuale della carta sulla quale apparivano, modellata dal chiaroscuro prodotto dall’annerimento più o meno intenso del cloruro d’argento. In compenso però si potevano dipingere più facilmente a mano, di quanto si riusciva a fare sui sottili vetrini che coprivano i dagherrotipi. Possedevano poi l’inestimabile vantaggio della potenziale tiratura in un numero illimitato di esemplari. Lo stesso negativo originale poteva infatti essere rifotografato, cioè copiato in positivo con la macchina fotografica medesima, quante volte si voleva.
E anche su carta sottilissima, quasi trasparente, che, se veniva colorata sul dorso, rivelava le tinte senza mostrarle e solo se attraversata dalla luce, come una vetrata.
Le tappe successive furono i processi all’albumina (1847), al collodio (1851) e alla gelatina (1873), che permisero di usare come supporto per la sostanza sensibile una lastra di vetro e successivamente anche una sottile pellicola trasparente al posto della carta. Ovviamente le prime emulsioni erano di scarsissima sensibilità e quindi richiedevano un tempo di esposizione estremamente lungo, pertanto le ricerche furono orientate per un lungo periodo verso la scoperta di emulsioni sempre più sensibili. Nel 1864 infatti, B. J. Sayce e W. B. Bolton introdussero per la prima volta il bromuro d’argento nella emulsione colloidale e nel 1871 Charles Maddox sostituì il collodio con la gelatina. Infine Desiré Charles Monckoven impiegò una soluzione ammoniacale nella fabbricazione delle lastre secche. La tecnica inventata da Talbot portò al rapido declinio dei dagherrotipi.

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