Joseph Nicéphore Niépce
L’interesse per la produzione di immagini senza l’intervento dell’uomo gli venne dalla litografia: sperimentando diverse tecniche Niépce riesce ad ottenere, nel 1826, la sua prima immagine disegnata dalla luce (dopo aver steso uno strato di bitume di Giudea ridotto in polvere e disciolto in essenza di lavanda; la soluzione viene pennellata su una lamina di rame ricoperta d’argento e quindi fatta asciugare; lo strato di vernice fotosensibile viene esposto per qualche ora sul fondo di una camera oscura; successivamente la lamina viene immersa in un bagno di lavanda per dissolvere i frammenti che non hanno ricevuto la luce e così si ottiene l’immagine in negativo. Per il positivo occorre un contenitore con cristalli di iodio che formano depositi di ioduro d’argento; eliminando la vernice con l’alcool appare l’immagine fotografica vera e propria) che definisce eliografia, la madre della moderna fotografia.
Louis Jacques-Mandé Daguerre
Condotto dai suoi studi di pittura, di prospettiva e di ottica, di fronte al problema del fissaggio delle immagini ottenute per azione del sole, Daguerre aveva appreso, nel gennaio del 1826, che questo problema era stato rìsolto già da qualche anno da Niepce. Era subito entrato ìn corrispondenza con lui ottenendone diversi saggi di eliografia su piastre di stagno o di rame. Niepce, a sua volta, aveva espresso il desiderio di conoscere i risultati di analoghi esperimenti annunciati da Daguerre. Ma questi non volle o non potè inviargli in cambio nessun campione dei propri lavori, benchè continuasse ad affermare di aver scoperto un procedimento diverso da quello di Niepce, anzi superiore. Al primo incontro tra Niepce e Daguerre del 1827 ne seguirono altri, sempre più frequenti, finchè, avendo Daguerre affermato di avere apportato alla camera oscura un perfezionamento considerevole tale da costituire un procedimento più semplice e sicuro per il fissaggio delle immagini, Niepce gli propose di unire i loro sforzi per imprimere alle loro scoperte un progresso più rapido e assicurarsene ì benefici.
Chi veramente aveva fatto molto per la fotografia, rimase in disparte. Si trattava di Hippolite Bayard e del già citato Niepce. Bayard era un modesto impiegato al Ministero delle Finanze di Parigi ed era tanto riservato e umile che i colleghi non sapevano nulla dei suoi esperimenti serali a lume di lucerna. Quando si sparse la notizia dell’invenzione di Daguerre nel 1839, egli si decise a rendere noti i risultati degli esperimenti condotti diversi anni prima: aveva ottenuto ìmmagini fotografiche positive direttamente dalla camera oscura, su carte al cloruro d’argento.
Il 24 giugno dell’anno stesso dell’annuncio di Arago, espose al pubblico, nelle vetrine di un magazzino di Parigi. trenta fotografìe dal vero. Ma non ottenne larga fama.
Insieme ad Hippolite Bayard non ottennero nè successo nè gloria anche Nadar, Disderi e altri “Tiziani della fotografia”, come allora venivano definiti i fotografi, con una pomposità che valse comunque a esaltare molti pittori di mediocre levatura i quali decisero di abbandonare i pennelli per i sali d’argento, facendo miglior fortuna e ottenendo un certo nome come ritrattisti da salotto. Nella sola Parigi, nel 1847, furono vendute 2000 macchine e mezzo milione di lastre. In Francia e in Inghilterra i dagherrotipisti eseguivano ritratti le cui dimensioni andavano dai 4 cm. per 5, ai 17 cm. per 22. Tali ritratti venivano poi montati su cornici di cartapesta o su astucci di metallo dorato e venduti ad un prezzo tra le due e le cinque sterline per lastra. Mentre i dagherrotipisti di professione accumulavano fortune, turisti, scrittori e artisti portavano nei loro viaggi, la macchina magica: ne ricavavano immagíni ricordo e illustrazioni per le loro opere. Dopo che il procedimento di Daguerre venne reso pubblico nel 1839, il dagherrotipo diventò una vera e propria mania. Molti pittori abbandonarono tavolozza e pennelli per dedicarsi con assai maggior fortuna al nuovo mestiere di dagherrotipista. Nelle immagini di quel periodo traspare evidente lo stretto legame che univa le prime composizioni in citografia e in dagherrotipia con le composizioni pittoriche. L’equivoco di ottenere, mediante sostanze sensibili alla luce, immagini ad imitazione dei quadri, durò a lungo. Quello che si cercò di ritrarre, nella maggior parte dei casi, furono gli effetti pittorici dei paesaggi. Gli appassionati del dagherrotipo furono dominati, insomma, dall’ambizione prevalente di riuscire a ottenere dei “bei quadri”, si preoccupavano meno di andare a ritrarre gli aspetti della vita quotidiana, anche se i ritratti di quel tempo rimangono documenti vivi ed autentici dell’epoca. Eppure, fin dagli inizi, Niepce, Daguerre e i loro seguaci avevano dimostrato che la fotografia è un’arte a sè, che ha poco o nulla in comune con la pittura. Essa, ma lo si capì solo molto piu’ tardi, è un mezzo per “raccontare” con immediatezza, o per creare immagini che il pennello non è capace di inventare. Alcuni dei migliori ritratti eseguiti con la nuova tecnica furono opera di un miniaturista di Amburgo, Carl F. Stelzner. Del 1843 è il dagherrotìpo che ritrae un gruppo del Circolo Artistico di’Amburgo durante una gita in campagna. Insieme con un altro dagherrotipista, Hermann Blow, Stelzner ritrasse, nel 1842, il terribile incendio che distrusse un intero quartiere di Amburgo. Fu quello il primo “reportage” fotografico della storia. Daguerre in realtà non inventò la fotografia. L’avevano inventata molti altri prima di lui. Non si sforzò neppure tanto a studiare, a sperimentare. Ebbe una grande fortuna, perchè riassunse, in una sintesi perfettamente aggiornata, le teorie altrui.
Nonostante i suoi notevoli limiti e la indubbia macchinosità del procedimento, che oggi ci inducono al sorriso, tuttavia il metodo di Daguerre ebbe un grande successo e l’uso del dagherrotipo si diffuse rapidamente, in particolare per ottenere ritratti (allora molto in voga) molto somiglianti e reali. I nuovi ritrattisti dagherrotipisti aprirono i loro studi in tutte le maggiori città del mondo, alcuni esercitavano la professione in modo ambulante, come risulta dalla pubblicità dell’epoca. Anche in Italia la dagherrotipia si diffuse rapidamente; il primo manuale tecnico, tradotto dal francese, è del 1840. Il successo delle immagini di Daguerre e dei suoi numerosi seguaci comunque non durò a lungo. E la notevole somma che lo Stato francese aveva speso, complice l’affarista Arago, per sovvenzionare Daguerre affinchè il suo procedimento fosse libero da brevetti, si rivelò ben presto una spesa inutile.
Pur rappresentando soluzioni di indubbio interesse scientifico e di grande richiamo anche dal punto di vista pratico, il processo di Niepce, la dagherrotipìa e i procedimenti consimili differivano abbastanza profondamente dai moderni procedimenti fotografici. Essi infatti davano direttamente un’ immagine positiva (cioè con i chiari e gli scuri corrispondenti a quelli del soggetto), unica, invertita e da cui non si potevano ottenere copie.
William Henry Talbot
Nel 1833 Talbot era in vacanza sul Lago di Como e si divertiva a fare disegni con l’aiuto di una camera oscura. Riflettevo sull’immutabile bellezza dei quadri che la Natura offre – racconterà poi – e che le lenti della camera oscura riproducono sulla carta….quadri favolosi che però si dissolvono in un baleno. Fu facendo questi pensieri che mi venne in mente come sarebbe stato bello fare in modo che le immagini naturali si imprimessero da sole sulla carta rimanendovi fissate per sempre“.
Tale procedimento ed il suo successivo perfezionamento chiamato Calotype (calotipìa), presentato nel 1841, erano fondamentalmente basati su un processo negativo-positivo con il quale si potevano ottenere, grande novità questa, anche molte copie dalla medesima posa. Sia il negativo che la stampa positiva erano costituiti da una carta impregnata di cloruro d’argento (ioduro d’argento nella Calotipìa). Fondamentale era stata la scoperta che il sale d’argento, non alterato dall’azione della luce, può essere sciolto in diverse soluzioni (sale da cucina all’origine e più tardi acido gallico). Con la carta ai sali d’argento di Talbot l’immagine della macchina fotografica si impressionava in negativo. Bastava però rifotografare il negativo di carta per invertire l’iimmagine, traducendola cosi in positivo. Esperimenti di annerimento della carta in vari modi sensibilizzata erano già stati tentati nel XVII secolo, riuscendo talvolta ad ottenere “silhouette” bianche su nero senza intervento manuale. La calotipia Talbot rese finalmente popolare, cioè economico, il ritratto mettendo seriamente in crisi i pittori moltissimi dei quali abbandonarono i pennelli e impararono la nuova tecnica, come in Italia Tommaso Cuccioni, ad esempio, gìà celebre incisore. I nuovi fotografi ex pittori ci tenevano però ad assicurare che fra immagine manuale e immagine ottica non esisteva nessuna sostanziale differenza e nei “marchi” di allora, bellissimi, i simboli delle due arti sono combinati. Infine la calotipia consentì per la prima volta l’ingrandimento automatico del negativo. La carta veniva resa trasparente come fosse una “pellicola” ungendola con vasellina.
Il contributo di Talbot per il progresso della fotografia fu notevole ed importante. Ma egli scrisse modestamente e con una notevole dose di intuito: “Non credo di avere perfezionato un’arte, i cui sviluppi non è possibile al momento prevedere con esattezza. Penso invece di aver dato ad essa solo un inizio. Credo di avere costruito fondamenta sicure e sarà compito di mani ben più abili delle mie erigere i piani superiori”. Le immagini su carta, ottenute con il procedimento negativo-positivo da questo “scienziato dilettante” (com’egli stesso amava definirsi), non possedevano però, per quanto riguarda i colori, la suggestione di quelle immaginifiche figure ‘metalliche’ di Daguerre.
Erano semplicemente della tinta eventuale della carta sulla quale apparivano, modellata dal chiaroscuro prodotto dall’annerimento più o meno intenso del cloruro d’argento. In compenso però si potevano dipingere più facilmente a mano, di quanto si riusciva a fare sui sottili vetrini che coprivano i dagherrotipi. Possedevano poi l’inestimabile vantaggio della potenziale tiratura in un numero illimitato di esemplari. Lo stesso negativo originale poteva infatti essere rifotografato, cioè copiato in positivo con la macchina fotografica medesima, quante volte si voleva.
Le tappe successive furono i processi all’albumina (1847), al collodio (1851) e alla gelatina (1873), che permisero di usare come supporto per la sostanza sensibile una lastra di vetro e successivamente anche una sottile pellicola trasparente al posto della carta. Ovviamente le prime emulsioni erano di scarsissima sensibilità e quindi richiedevano un tempo di esposizione estremamente lungo, pertanto le ricerche furono orientate per un lungo periodo verso la scoperta di emulsioni sempre più sensibili. Nel 1864 infatti, B. J. Sayce e W. B. Bolton introdussero per la prima volta il bromuro d’argento nella emulsione colloidale e nel 1871 Charles Maddox sostituì il collodio con la gelatina. Infine Desiré Charles Monckoven impiegò una soluzione ammoniacale nella fabbricazione delle lastre secche. La tecnica inventata da Talbot portò al rapido declinio dei dagherrotipi.
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