Mario Giacomelli è uno dei fotografi italiani più conosciuti in ambito internazionale. Alcune delle sue immagini sono diventate delle vere e proprie icone, simbolo riconosciuto della ricerca fotografica italiana nel mondo.
La vita di Mario Giacomelli
Nasce il 1° agosto 1925 a Senigallia (Ancona). La sua infanzia è segnata dalla morte del padre nel 1935. Terminate le scuole elementari s’iscrive alla scuola di avviamento commerciale G. Fagnani di Senigallia. Tuttavia, a causa delle difficoltà economiche in cui versava la famiglia, è costretto ad abbandonare gli studi e trovare lavoro come garzone presso la Tipografia Giunchedi. Nel 1951 si mette in proprio e apre la Tipografia Marchigiana di via Mastai, dove lavora fino alla sua morte nel 2000.
Mario Giacomelli si avvicina alla fotografia da trentenne. Apprendista del fotografo Ferruccio Ferroni, entra a far parte del gruppo MISA, fondato dal fotografo e critico Giuseppe Cavalli. La strada verso la notorietà si apre con la vittoria del Concorso Nazionale di Castelfranco Veneto nel ’55. Qui Paolo Monti, della giuria, definisce Giacomelli come “l’uomo nuovo della Fotografia”. Legato alla sua camera Kobell Press, con obbiettivo Voigtlander color-heliar 1:3,5/105, Giacomelli affronta diverse serie dall’apparenza “reportagistica”, ma sempre caratterizzate da un alto grado evocativo, da uno stile poetico e malinconico, che a tratti diventa astratto. Tra le serie più conosciute “Scanno” (1957/59), acquistata da John Szarkowsky, curatore del Moma di New York, aprendolo al riconoscimento internazionale, “Puglia” (1958),“Zingari” (1958), “Un uomo, una donna, un amore” (1960/61).
Nella serie “Mattatoio” (1961), Giacomelli coglie, attraverso un’intensità realista e una composizione seicentesca, la brutale condizioni degli animali destinati alla morte. Nella serie “Io non ho mani che mi accarezzino il viso”, che prende il nome da una poesia di David Turoldo, Giacomelli fotografa i “pretini” del seminario vescovile di Senigallia. Lo fa in modo inedito, concentrandosi sugli aspetti infantili e ludici dei giovani preti, attraverso delle immagini malinconiche che sembrano richiamare metaforicamente la solitudine, la separatezza e la privazione a cui sono soggetti.
Del 1964/66 è la serie “La buona terra”, il fotografo inizia a chiedere ai contadini, pagandoli, di creare con i loro trattori precisi segni sulla terra, agendo direttamente sul paesaggio da fotografare, un esempio di Land art ante litteram.
Nel 1967, infine, il ciclo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: dedicato agli ospizi, composto da foto scattate a più riprese tra il 1955 e il 1968 e il cui titolo richiama la celebre poesia di Cesare Pavese. L’ospizio di Giacomelli è un simbolo di emarginazione e solitudine affettiva. L’altra faccia di una società efficiente e cinica, dove il tempo è denaro e il valore degli esseri umani è misurato in conformità a parametri di efficienza produttiva. Una sorta di purgatorio, dove uomini e donne vivono aspettando la morte.
Le fotografie di Mario Giacomelli
L’opera di Mario Giacomelli si distingue per uno stile secco e poetico, caratterizzato da forti contrasti: immagini scure di persone che, come fantasmi, si fanno largo in un ambiente statico e immobile. Il linguaggio in bianco e nero per il fotografo italiano diventa traccia, necessità, spirito di una forma che si sprigiona non dall’esterno, ma dall’interno. Giacomelli, infatti, non scatta istantanee di vita, non cattura attimi fuggenti, ma crea spazi visivi nei quali esprimere paure e incertezze. La sua visione non è lineare, ma ciclica, tutto è in movimento nel tempo e questo fa sembrare lo spazio attorno contagiato come fosse parte di un sogno, al di fuori del momento storico che lo contraddistingue.
- Giacomelli, Mario (Author)
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La citazione
“Apposta parlo di segni. Li potrei fare anche sulla carta, nel mare, ma sarebbero tutti voluti, quindi tutti falsi. A me interessano i segni che fa l’uomo senza saperlo, ma senza far morire la terra. Solo allora hanno un significato per me, diventano emozione. In fondo fotografare è come scrivere: il paesaggio è pieno di segni, di simboli, di ferite, di cose nascoste. È un linguaggio sconosciuto che si comincia a leggere, a conoscere nel momento in cui si comincia ad amarlo, a fotografarlo. Così il segno viene a essere voce: chiarisce a me certe cose, per altri invece rimane una macchia”.
“La fotografia mi ha aiutato a scoprire le cose a interpretarle e rivelarle. Racconto la conoscenza del mondo, in una architettura interiore dove le vibrazioni sono un continuo fluire di attimi, di avventure liberanti come espressione totale dove sento tutta la completezza della mia esistenza”.
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“Del 1964/66 è la serie “La buona terra”, il fotografo inizia a chiedere ai contadini, pagandoli, di creare con i loro trattori precisi segni sulla terra, agendo direttamente sul paesaggio da fotografare,…” descrizione che viene contraddetta dalla citazione, attribuita a Giacomelli, che Lei riporta in calce all’articolo: “…“Apposta parlo di segni. Li potrei fare anche sulla carta, nel mare, ma sarebbero tutti voluti, quindi tutti falsi. A me interessano i segni che fa l’uomo senza saperlo, ma senza far morire la terra. Solo allora hanno un significato per me, diventano emozione….”. Dalla citazione, si evince che Giacomelli non chiedeva nulla, e si limitava a cercarne un significato, fotografando quei segni.