Nan Goldin è una dei fotografi più celebri e più controversi del XX secolo. La fotografa americana ha influenzato, con i suoi ritratti spietati e sinceri, un’intera generazione di fotografi.
L’infanzia dell’artista americana è segnata dal suicidio della sorella maggiore Barbara Holly, all’età di diciotto anni. I genitori si rifiutano di accettare e raccontare l’accaduto sia all’esterno delle mura domestiche, per mantenere una certa rispettabilità, sia all’interno della famiglia, convinti che un simile atteggiamento possa aiutare la sopravvivenza famigliare.
L’effetto ottenuto è l’opposto: Nan Goldin sviluppa un’ossessione verso la ricerca della verità, per quanto cruda e dolorosa ed inizia a utilizzare la sua visione artistica per documentare la vita.
Trasferitasi a New York (1978), raggiunge la fama con “The ballad of sexual dependency”, opera realizzata selezionando e giustapponendo un consistente numero di diapositive a colori, scattate in differenti periodi, accompagnate da una colonna sonora.
Lo stile fotografico di Nan Goldin
Si dice che la fotografia postmoderna, non tenda a ricreare il mondo, ma a crearlo. A produrre cioè una finzione parallela al mondo reale. La fotografia di Nan Goldin, invece, crede ancora nella capacità dell’immagine fotografica di rappresentare e di indicare delle esperienze autentiche.
L’obiettivo fotografico di Nan Goldin diventa parte integrante del corpo, in grado di registrare, senza alcuna censura, impressioni ed esperienze. Una ricerca fotografica morbosa e potente che indaga tra tossici, drag queen, donne pestate e scatti pieni d’amore. La fotografa americana dà vita a un monumentale documento visivo di ricordi e momenti di intimità.
Sullo sfondo la malattia dell’AIDS e il sesso, che si mescola con elementi di lusso e miseria, lussuria ed innocenza. Nan Goldin corre la sua battaglia contro il tempo e contro la morte, cercando di preservare l’essenza di ciò che vive. Il suo percorso di maturazione segnato da esperienze limite, passa dalle sembianze dionisiache dei party newyorchesi, caratterizzati da una sessualità libera, all’emancipazione dalla droga e alle molestie del suo ex ragazzo.
Un’artista che non lascia indifferenti, facendosi portavoce di un mondo underground e dannato, in cui, tuttavia, c’è spazio per valori universali in cui identificarsi.
Allora tra shock, voyeurismo e compassione, Nan tesse invisibili tele di empatia tra il soggetto fotografato e lo spettatore, esaltazione di un dialogo privo di veli, che mette a nudo con forza e senza reticenze l’eternità delle sensazioni.
L’uso dell’autoritratto
“Mi fotografo nei momenti di difficoltà o di cambiamento per trovare il terreno su cui poggiare il cambiamento. Scattare autoritratti diventa un modo per aggrapparsi a se stessi”.
Nel corpo di lavoro di Nan Goldin sono presenti diversi autoritratti. La fotografa americana più volte ha usato se stessa come veicolo per la catarsi. Tra questi ricordiamo l’inquietante autoritratto del 1984, intitolato “Nan un mese dopo essere stata picchiata”. Nan Goldin non nomina il suo aggressore nel titolo. Indipendentemente da chi abbia commesso il crimine, siamo tutti testimoni dei suoi effetti, i segni sul viso e l’occhio rosso di sangue che ci fissa.
La frase di Nan Goldin
“La fotografia mi ha salvato spesso la vita: ogni volta che ho passato un periodo traumatico sono sopravvissuta scattando. Il mio lavoro si basa sulla memoria. Per me è fondamentale avere un ricordo della gente che ho conosciuto, specialmente di chi mi è stato vicino, per consentirgli di vivere per sempre”.
Se volete vedere il lavoro dei maestri della fotografia vi rimando alla sezione Maestri della fotografia. Se, invece, volete approfondire le nuove correnti fotografiche e i nuovi autori della fotografia artistica, vi rimando alla sezione Fotografia Artistica.
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