Viviamo in un’epoca di immagini. Siamo circondati, sommersi, programmati da flussi visivi che non si limitano più a rappresentare il mondo, ma sempre più lo generano. In questo scenario in mutazione, il confronto tra fotografia e immagine artificiale non è solo una questione tecnica o artistica: è una frattura ontologica, una crisi epistemologica, un evento filosofico. È il momento in cui l’immagine cessa di essere finestra sul reale e diventa specchio della macchina che l’ha prodotta.
Vilém Flusser, pensatore delle immagini tecniche, ci ha insegnato a leggere la fotografia non come arte né come documento, ma come espressione di un apparato programmato. Il fotografo, secondo Flusser, è un funzionatore: non crea liberamente, ma gioca con le possibilità offerte da un dispositivo che impone regole, vincoli, automatismi. Eppure, è proprio in questo gioco che può emergere la libertà: non nel dominio del mondo, ma nel dominio del programma — in quella che Flusser chiama metaprogrammazione.
Fotografia e Intelligenza Artificiale
Oggi, però, lo scenario si è trasformato. L’avvento dell’intelligenza artificiale nella generazione delle immagini ha introdotto un nuovo tipo di apparato, infinitamente più complesso e opaco: il modello generativo. Qui, l’automa non si limita più a funzionare secondo un codice fotografico predeterminato: ora apprende, simula, inventa. L’immagine non nasce più da un atto ottico-chimico, da un incontro con il reale, ma da una costellazione statistica: è sintesi, non registrazione.
In questo nuovo regime, il ruolo dell’umano si svuota. Il fotografo, già ridotto a operatore, rischia ora di essere degradato a semplice promptista: colui che descrive a parole ciò che la macchina tradurrà in immagine. Il gesto artistico si riduce a un’istruzione linguistica, e la macchina — che non ha mai visto, mai provato emozione, mai abitato il mondo — comincia a produrre immagini più convincenti di quelle umane. È l’automa che sogna al nostro posto.
Ma cosa sogna una macchina?
Metaprogrammare l’immaginazione artificiale
Flusser ci invita a non accontentarci dell’apparenza. L’immagine, per lui, è sempre un messaggio codificato. E ogni codice, una volta naturalizzato, tende a rendersi invisibile. Il compito del pensiero filosofico non è accettare il codice, ma decostruirlo, renderlo visibile, metterlo in crisi.
Nel mondo delle immagini AI, questo significa qualcosa di radicale: non basta usare questi strumenti, occorre pensarli. Significa che l’unico gesto autenticamente creativo oggi è la metaprogrammazione dell’apparato: non la scrittura del prompt, ma la progettazione dei dataset, l’analisi dei bias, la decostruzione delle logiche probabilistiche che generano il visibile.
Chi sono i soggetti, i corpi, i colori che l’IA tende a privilegiare? Quali estetiche riproduce? Quali esclusioni perpetua? Ogni immagine generata è una decisione travestita da creazione. Solo il metaprogrammatore, colui che interviene a monte, può restituire al visibile il suo statuto critico. In questo senso, l’artista del XXI secolo non è più né pittore né fotografo: è architetto dell’apparato. La sua libertà non consiste nel rappresentare, ma nel progettare le condizioni del rappresentabile.
Verità e immagine: un legame spezzato
Tuttavia, nessuna riflessione sull’immagine tecnica può prescindere dal tema della verità. Fin dalle origini, la fotografia ha intrattenuto con la verità un rapporto ambiguo e seducente. Essa non era oggettiva, certo, ma portava con sé un residuo ontologico: la luce che tocca la pellicola, la traccia lasciata da un corpo. Come diceva Roland Barthes, la fotografia è testimonianza che qualcosa è stato. Non importa quanto manipolata: qualcosa del reale, nella fotografia, resiste.
Oggi questo legame è infranto. Le immagini prodotte dall’IA non hanno più alcun referente: non vi è nessun “è stato”. Esse non derivano da un mondo, ma da un modello del mondo. Non mostrano ciò che esiste, ma ciò che potrebbe esistere. Sono ipotesi visive, simulazioni estetiche, allucinazioni codificate.
Che verità può allora contenere un’immagine artificiale?
Una risposta ingenua sarebbe negarla: le immagini AI non dicono la verità. Ma questo sarebbe fraintendere la posta in gioco. Le immagini sintetiche non mentono — semplicemente, non hanno mai inteso dire la verità. La loro funzione non è testimoniare, ma affermare possibilità. Sono espressione di un’immaginazione statistica, non di un’esperienza.
Tuttavia, proprio in questo loro carattere simulativo, esse ci obbligano a ridefinire il concetto stesso di verità visiva. Non più verità come corrispondenza al reale, ma verità come evento critico: l’immagine è vera se ci costringe a interrogarci, se ci obbliga a pensare la visione, se scardina la nostra passività percettiva. In questo senso, la verità dell’immagine è il suo effetto filosofico.
Conclusione: abitare il visibile
In definitiva, siamo di fronte a una mutazione antropologica del visibile. La fotografia, nel pensiero di Flusser, rappresentava già una soglia: dalla rappresentazione alla programmazione. L’immagine artificiale, oggi, ci pone davanti a una nuova soglia: dalla programmazione alla autoprogrammazione, dalla registrazione alla generazione.
Non possiamo più limitarci a vedere: dobbiamo pensare il vedere. Non possiamo più limitarci a produrre immagini: dobbiamo criticare le condizioni della loro produzione. Solo così potremo sottrarci alla dittatura del codice e tornare ad abitare il visibile non come spettatori, ma come soggetti.
Perché il vero problema non è che l’automa sogni. Il problema è se, dentro quel sogno, ci sia ancora posto per noi.
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Pezzo davvero profondo e interessante! La fotografia è verità, il resto è ricostruzione artefatta e sintetica. Se ti interessa, non so un fotografo ma amo questa arte e come AI la sta imparando! Dobbiamo governarla!