Fotografia e morte

Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona o di un’altra cosa. Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo” (Susan Sontag).

Relazione tra fotografia e morte

La fotografia richiama l’idea della morte in quanto, bloccando il tempo, “uccide” il flusso vitale nella sua continuità, per coglierne solo un frammento statico. Ogni fotogramma, infatti, rappresenta un istante rubato, sottratto alla totalità e alla continuità del reale. L’immagine fotografica opera una sezione nello spazio e nel tempo. Attraverso le immagini fotografiche, racchiudiamo il mondo in divenire in una serie di scene particolari, di aneddoti, che isolano la realtà in una forma atomica e maneggevole. Tuttavia, non solo la fotografia evoca la morte congelando il fluire, ma allo stesso tempo consente di sottrarla dalla caducità, preservandola dall’oblio. La peculiarità della fotografia è di essere simultaneamente falsificazione della realtà e passato. Passato, perché ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente. Falsificazione della realtà, perché seppur il referente è stato davanti all’obiettivo, lo scatto rappresenta pur sempre un’interpretazione della situazione.

Marcel Proust parlava della esperienza della temporalità, scrivendo: “Scancella tutto, il tempo, come le onde fanno con le imprese infantili sulla sabbia uguagliata“. La fotografia cerca di preservare queste tracce. Ossessionati dall’angoscia del mai più, scattiamo foto che diventano appunti, che sostituiscono la nostra stessa memoria e creano una nuova coscienza per dimenticare. Creiamo con le nostre immagini una temporalità detemporalizzata, diversa da ciò che è accaduto, filtrata dalla nostra visione. Con le immagini trasmettiamo il senso di un passato che non ritorna, di un passato morto che tuttavia sembra rimanere vivo, continuando ad essere visto e rivisto, un passato in grado di rinnovarsi ad ogni nuovo sguardo senza però trasformarsi. Per questo motivo conserviamo dall’oblio l’immagine dei cari che non ci sono più. Le immagini hanno assunto, nella nostra società, il posto delle statuette con i quali si manteneva vivo il ricordo del defunto. Sarebbe difficile immaginare la vertigine del vuoto senza di esse.

Morte come forma

Lo scatto instaura un meccanismo che permette di controllare e dominare il caos degli eventi, consentendo di selezionare e isolare ciò che vogliamo. Barthes parla della morte come Eidos (εἶδος) della fotografia, ovvero come forma della stessa. L’immagine fotografica fissando l’istante, ferma il momento: estrae quanto ritrae dal flusso dinamico degli eventi, allo stesso modo di come la morte ci tira fuori dalla vita. Molto interessante è, inoltre il rapporto esistente con la foto quando veniamo ritrattati. A riguardo Barthes parla dell’esperienza della posa, identificandola in una esperienza di dissociazione in cui l’“io” avverte una frattura tra sé e l’immagine che di sé troverà dopo lo scatto. L’“io”, così mutevole, sempre in movimento, sempre diverso, viene reso immobile e statico, fissato nell’immagine di un corpo, di un volto, di un’espressione. L’essere fotografato, allora, trasforma il soggetto in oggetto, rendendolo partecipe di una micro-esperienza della morte: “io divento veramente spettro”.

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