La vita di Antoine D’Agata
La fotografia di Antoine D’Agata
Una vita da nomade, tra sesso e droga. Un percorso apocalittico, simile a quello di altri artisti eretici della cultura contemporanea come Kerouac, Artaud, Bacon e Pasolini. Immagini frutto di peregrinazioni notturne, amplificate da una percezione alterata dall’uso di sostanze psicotrope, che risultano spesso fuori fuoco, fugaci, mosse e costantemente avvolte da un profondo lirismo drammatico.
Scatti che nascono dalla casualità degli incontri, dalle situazioni e dalle scelte dettate dall’inconscio, caratterizzati da una brutalità della forma. Contrapposizioni tra sogno e realtà, incubo visionario e percezione, sessualità e poesia del corpo. Un flusso di immagini che dipinge il delirio incontrollato della solitudine della mente senza lasciare indifferenti, incantando o disgustando, ma provocando, in ogni caso, un sentimento forte e netto.
Una fotografia violenta, disordinata e complessa, che non accetta compromessi e rivela la sofferenza individuale dello stesso artista, raccontandoci l’interezza delle sue esperienze, senza conoscere un limite privato. Un lavoro che dimostra la necessità di gridare le minacce e i vuoti dell’esistenza.
La frase di Antoine D’Agata
“Al di là della pretesa umanistica, il reportage comunica sempre valori distorti e insidiosi. La sua sopravvivenza economica è sempre dipesa da strategie logiche tese a perpetuare l’efficienza e la redditività di un sistema controllato dall’élite e a beneficio dell’élite stessa. Bisogna ricordare che nessuna fotografia può pretendere di mostrare la verità. Un’immagine mostra soltanto una data situazione sotto una prospettiva molto specifica, sia che questo avvenga in modo conscio, plateale, rilevante o meno. I fotografi devono giungere a patti con la consapevolezza che possono solo rappresentare frammenti di realtà illusorie, a cui legare la propria intima esperienza del mondo. In questo processo di funzionalizzazione di una verità irraggiungibile, sta a loro la scelta: imporre i propri dubbi sulla verità fotografica, o accettare di essere pedine impotenti del gioco mediatico”.
“C’è un po’ di codardia nella posizione tipica della fotografia documentaristica, che si pone in un terreno a metà tra il voyeurismo e l’incolumità personale: è lì che si trova lo sfruttamento. In questi ultimi anni ho sperimentato nuovi metodi di lavoro, abbandonando gradualmente la mia posizione dietro la macchina fotografica per entrare io stesso nell’immagine, diventando personaggio delle mie fotografie. È l’unica posizione legittima. La fotografia è l’unico linguaggio artistico che dev’essere elaborato nello stesso istante in cui avviene l’esperienza che si ha intenzione di ritrarre. Cerco di usare la fotografia nel modo più coerente, mentre sperimento il mondo nel modo più intenso, cercando di assumermi la responsabilità delle mie azioni e riconoscendo l’esistenza e le emozioni delle persone che ritraggo”.
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